Quando qualcuno mi chiede della Sicilia, io gli consiglio di leggere Verga, Pirandello, Martoglio, Capuana, Sciascia, Tomasi di Lampedusa, Camilleri e tanti altri scrittori, drammaturghi e poeti, figli di questa nobilissima terra, che non elenco non per minore importanza, ma per intuibili ragioni di spazio e di tempo. Se, invece, l’interlocutore mi chiede di raccontargli la Sicilia per immagini, per flash, gli consiglio di visionare le tele di Enzo Di Franco, il quale, modulando il colore con tecnica sapiente, riesce a trasmettere all’osservatore non soltanto le emozioni che scaturiscono dalle immagini dello stupendo scenario naturale dell’isola, ma anche l’anima dei suoi abitanti che è intrisa di tradizione e dedizione al lavoro ed alla famiglia.

Enzo Di Franco è un pittore alcamese contemporaneo il quale ha saputo coniugare il suo lavoro di geologo ed insegnante con la sua passione per la pittura che ha coltivato sin da ragazzo. Dopo la laurea si è trasferito a Milano dove ha frequentato gli studi artistici di pittori già noti e dove ha tenuto la sua prima mostra nel 1973. Da allora ad oggi ha tenuto un centinaio di mostre in Italia ed all’Estero, cimentandosi non soltanto in tematiche isolane di particolare impegno sociale come “il terremoto del Belice”, “i luoghi della memoria”, “i colori della tradizione”, “il mercato: colori, luci ed emozioni”, “del mare, dei tonni e degli Uomini”, ma anche in tematiche aventi per oggetto altre Regioni e culture d’Italia come la Toscana e la Val Tiberina (“Viaggio in Val Tiberina”).

Di Franco ha ricevuto sempre i favori della critica e molti significativi riconoscimenti, primo tra tutti la destinazione di alcune sue opere alla pinacoteca d'arte contemporanea di Cisterna di Latina. Nei suoi quadri vediamo la terra brulla, madida del sudore di chi anche in età avanzata è costretto a vangarla per trarre quel minimo di sostentamento per la sua famiglia, vediamo volti segnati dal tempo e dal lavoro, schiene ricurve sotto il peso dei prodotti della terra, vendemmiatori alle prese con tralci di vite le cui foglie lasciano evidenziare i danni provocati dalla peronospora, sotto un sole irreale, quasi vangoghiano, con colori che sfumano dal bianco al giallo,all’arancio, all’indaco, per poi perdersi nel blu intenso del cielo, altrettanto irreale, che obbliga l’osservatore a soffermarsi sul primo piano dei lavoratori ed a percepirne tutta la fatica.

Vediamo muli anoressici, le cui zampe si piegano sotto il peso delle ceste ricolme dell’uva raccolta, strade impervie per atavico abbandono da parte di chi amministra la cosa pubblica, case campestri arse, desolate e dirute, siepi di ficodindia, simbolo della nostra terra, alberi d’ulivo con tronchi e rami contorti come il carattere del siciliano, che si riconosce attraverso la coppola posta di traverso in una testa con un volto mal distinguibile, perché i caratteri somatici degli isolani narrano tutti la stessa storia fatta di stenti e di soprusi. Vediamo le macerie di Gibellina e percepiamo il terremoto, narrato attraverso il silenzio che trapela dai ruderi delle case, un silenzio di morte, di desolata rassegnazione, rotto soltanto dal grido che sembra provenire da una Croce, rimasta miracolosamente eretta e che sembra dire “Perché mi hai abbandonato?”.

Ma la vita continua in un frenetico vortice attorno al mercato: Vediamo sagome affancendate, colori variopinti, gazebi addobbati con tendaggi che denotano un chiaro retaggio della dominazione araba, frutta che sembra uscire dalle ceste, limoni di un giallo abbagliante che contrasta con il color grigio metallico del tonno esposto a fianco, e poi arance, verdure, melanzane, pomodori e tutte le ricchezze di una terra baciata dal sole. Spostandoci a Favignana restiamo coinvolti nella pesca del tonno. In uno scenario che Milena Bassani ha definito da “paradigma Hemingwaiano”, riviviamo l’antica lotta fra la preda ed il predatore, la camera della morte, il mare ribollente ed arrossato del sangue dei pesci, la fatica per issarli sulla barca, i volti dei tonnaroti piagati dalla salsedine e spesso rivisti nello stesso quadro due volte, da giovani e da vecchi, quasi a simboleggiare la continuità di un impegno senza tempo.

Infine, i paesaggi marini, ove il colore del mare riflette l’emozione istantanea del pittore, sfumando dal blu intenso al celeste, al verde, al cristallino, ora macchiato dai colori del tramonto, ora tumultuoso e ribollente. E ancora le montagne variopinte, l’Etna con le sue colate laviche, i terreni ubertosi, le vie, le piazze e le scalinate, le case dei poveri cui, sullo sfondo, fanno contrasto le case dei potenti, i cieli tersi o nuvolosi, tinti di color pastello o gonfi di pioggia. Ma soprattutto attraverso le opere pittoriche di Di Franco scopriamo il vero volto del siciliano, eternamente combattuto fra due opposti, amore ed odio, amicizia ed inimicizia, sentimento e passione, ragione e sogno, credulità e diffidenza, ingenuità ed astuzia, a volte pigro ed abulico, in altri momenti lavoratore frenetico ed instancabile, ora risparmiatore, legato a filo doppio alla sua “roba”, domani spendaccione, incurante del futuro come se stesse recitando un copione di carnevale.

Di Franco ci mostra il tradizionale volto della Sicilia refrattaria alla Storia ed “irredimibile”, come direbbe Sciascia, ma nello stesso tempo pone in risalto l’instancabile operosità del Siciliano che lascia presagire un futuro migliore. Al pessimismo della ragione egli antepone l’ottimismo della volontà!

di Saverio Orlando